Songs of a Lost World – Ultimo album dei The Cure

di Cesare Orlando

Estratto da “Krínomai. Rivista italiana di storia e critica delle Arti”, n. 1 (Milano, 2025), pp. 189-190.

Ci sono voluti sedici anni. Quasi un’era musicale, se si vuole ragionare con le logiche del mercato degli ultimi anni, che ormai tende a fingere di stravolgere i generi, fagocitandoli e riproponendoli spesso in modo troppo omogeneo, uccidendo la creatività e sacrificandola sull’altare del mainstream.
Ma nel caso dei Cure, giunti al primo album di inediti dopo sedici anni (“Songs of a lost world”) si tratta di una conferma, qualora ve ne fosse ancora bisogno. La certezza che ci sono ancora e parlano alla loro vasta e appassionata platea di aficionados, senza paura. L’album, uscito a novembre 2024, viaggia molto bene nei nuovi canali della fruizione discografica e praticamente senza promozione (se si eccettua un riuscitissimo concerto di presentazione, evento per la BBC e per You Tube).

La band inglese, creatura dell’immarcescibile Robert Smith, non teme nulla perché è forte della sua stessa identità artistica, composta da un’architettura sonora monumentale, eppure fatta di semplici accordi (gli stessi che permisero al capolavoro “Disintegration” di volare alto nelle classifiche del 1989). Il nuovo disco parla ai fans vecchi e nuovi, ci sono canzoni dal grande impatto emotivo, come il primo singolo “Alone”, “ A fragile thing” e la struggente “And nothing is forever”, in cui Smith canta «I know that my world has grown old and nothing is forever, but it really doesn’t matter, if you say we’ll be together, if you promise you’ll be with me in the end». Questa stessa “reverie” ritorna prepotente alla fine del racconto di questi cinquanta minuti di grande musica, nella didascalica “Endsong” («I’m outside in the dark, wondering how I got so old»).

Sono canzoni ispirate, la scrittura è fluida e prorompente, proprio come succede agli artisti dopo un lungo silenzio creativo. Le lunghe introduzioni strumentali alle quali gli ex ragazzi di Crawley ci hanno abituati permettono all’ascoltatore di ambientarsi piano piano, in ogni pezzo, come quando si entra in un caldo salotto illuminato da un camino, mentre fuori nevica o c’è nebbia. In “All I ever am” l’animo gotico diventa diario autobiografico, Robert si guarda allo specchio, ormai sessantacinquenne, ma sempre uguale e coerente, con gli occhi bistrati di nero e il rossetto sbavato.

C’è anche spazio per le digressioni rock di “Drone:Nodrone”, con il meraviglioso basso distorto del granitico Simon Gallup e per “I can never say goodbye”, che ricorda molto le atmosfere di alcuni pezzi del passato glorioso. In definitiva, un ritorno convincente e carico di emotività, un grido nel buio di una foresta (la citazione sorge spontanea per ogni appassionato della band), un disco che riconcilia con la musica di un’epoca in cui non esistevano autotune ma delay e flanger per chitarre che erano voce oscura di una generazione disorientata, tormentata. Ma forse, paradossalmente, più felice.

Artista: The Cure
Data di uscita: 1 novembre 2024
Generi: Ghotic-Rock, Space-Rock
Supporto: CD
Etichetta: Fiction, Polydor, Capitol
Registrazione: 2019 – 2022

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