Chopin visto da se stesso – Un caso di aporie generazionali nei percorsi di autoconsapevolezza di interpreti e compositori

di Francesco Libetta1

Estratto da “Krínomai. Rivista italiana di storia e critica delle Arti”, n. 1 (Milano, 2025), pp. 63-74.

Il tempo (quello umano, banale, nella misura del trascorrere delle vite) può essere un ingrediente fondamentale del delicato processo attraverso il quale si delinea la complessa percezione collettiva tipica di un capolavoro. Insieme con l’altro ingrediente indispensabile, il contesto, è il tempo che forma il vino importante, che entra nella produzione dell’aceto balsamico e del parmigiano, del significato attribuibile alla tomba del tuffatore e alla Gioconda, alla Nona Sinfonia di Beethoven o al Sacre du Printemps. All’interno di un determinato microclima ambientale e sociale, quel tempo grande protagonista della formazione di un significato è da intendere come quantità di esperienze intercorse, ovvero come distanza psicologica del presente dal momento documentato dall’opera artistica. Un capolavoro nell’istante della sua creazione non è la stessa opera che si può conoscere in un tempo differente. Ne sia prova l’essersi dimostrato inutile, velleitario e contraddittorio l’aver tentato di scrivere oggi “musica classica”. Perché la funzione di “antenato”, di “classico”, appunto, non viene da una idea, o addirittura da una intenzione, o dal rispetto di un protocollo. Viene piuttosto da un processo. I parametri che distinguono sono altri. Altrettanto inutile sforzarsi di scrivere “musica contemporanea”; perché anche un brano di linguaggio barocco, se scritto in questi mesi, è da intendersi, nel bene e nel male, come puramente ed esclusivamente contemporaneo.
Fra i compositori oggi più studiati e conosciuti, Fryderyk Chopin ci offre l’opportunità di un affaccio sull’interessante orizzonte di interpretazione dei meccanismi di formazione dell’opinione pubblica.
Un caso di interazioni particolarmente dense tra azioni frutto di momenti estetici diversi e a volte irrelati.
La familiarità con i rebus contenuti nelle pagine musicali di Chopin tende a disattivare, per abitudine, ogni sospetto di equivocabilità della sua opera. Quei “cannoni sotto ai fiori” di cui parlava Schumann non sono certo armi da parata. A parte quegli ambienti vittoriani più confortati dai ceselli di Mendelssohn, a parte gli inevitabili “haters” a lui contemporanei, Chopin viene oggi considerato principalmente un delicato e appassionato poeta del pianoforte, è benvenuto come elegante presenza in un salotto per bene, ha una consolidata reputazione di familiare star della sala da concerto. Una personalità la cui musica viene eseguita da pianisti di ogni età e formazione. In questa immediata sincerità di sentimenti sembra non esserci spazio per zone d’ombra. O meglio: anche le zone d’ombra sono state, nel tempo, irreggimentate, trasfigurate nel pittoresco di qualche narrazione. Nell’autunno del 1839 il grande pianista e compositore Ignaz Moscheles incontrò Chopin. Moscheles era di una quindicina di anni più anziano e godeva di grande stima da parte del mondo musicale ufficiale. In una lettera racconta del suo incontro con Chopin, scrivendo:

Su mia richiesta [Chopin] ha suonato per me. E ora capisco la
sua musica […] Il suo modo di suonare, che negli interpreti della sua
musica degenera in mancanza di ritmo, in lui non è che originalità
del discorso ricca di grazia […] È unico nel mondo dei pianisti.


Molti dei grandi musicisti di quegli anni, Mendelssohn, Berlioz, Hallé, Meyerbeer, incontrano o ascoltano Chopin. E tutti, concordemente, descrivono qualcosa di inaspettato nel modo con cui Chopin esegue la sua musica, qualcosa che non si riesce ad evincere dallo spartito così come era pubblicato.
Agli occhi e alle orecchie dei colleghi sembrava, cioè, che lo spartito non contenesse tutte le informazioni necessarie per ricreare l’oggetto musicale. Qualcosa mancava. In occasione di ogni lettura è necessario partire da un codice di decifrazione. E se a noi sono necessarie informazioni ulteriori per comprendere meglio la pagina scritta, con che cosa possiamo – o dobbiamo – integrare la lettura di uno spartito a stampa di musica di Chopin?
Iniziamo indagando sul tipo di musica e di atmosfera espressiva che Chopin cerca di creare. Le pagine sul senso ossianico e gotico del primo romanticismo ne La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz ci indicano già una chiave di lettura del gusto diffuso in quegli anni; atmosfere che il tardo romanticismo ha poi offuscato alla nostra percezione. Fantasmi, trasformazioni e visioni destabilizzanti, orizzonti di irrazionalità onirica. La nuova sensibilità guidava, tra i creativi dell’epoca, anche la nascita del suono chopiniano. Il quale metteva radici in un particolare innesto di arditezze inaudite su una formazione personale marcatamente fuori moda e non aggiornata. Il salto per recuperare il divario tra le esperienze in provincia a Varsavia e la vita culturale delle capitali – Vienna e poi Parigi – fu accompagnato da tale nuova estetica, e ha prodotto un vocabolario originalissimo. In quanto risultato raro, facilmente travisabile.

Fig. 1 E. Delacroix, Chopin (1838). Olio su tela, 45×38 cm. Museo del Louvre, Parigi.

Per cercare di chiarirci quale voce il romantico Chopin dava alle sue visioni, ripercorriamo i suoi passi formativi.
Chopin aveva studiato pianoforte con Wojciecj Żywny, violinista e clavicembalista nato in Boemia nel 1756. Il 1756 è l’anno della nascita di Mozart, musicista “classico” per eccellenza. Ma Mozart visse viaggiando, frequentando capitali europee, grandi personalità internazionali, e ambienti culturali aggiornatissimi. Żywny ebbe una formazione molto più ordinaria. Al giovane Chopin Żywny faceva studiare la classica musica di Franz Joseph Haydn (che morì quando Chopin aveva nove anni) e di Johann Sebastian Bach, evitando musica di autori contemporanei come Carl Maria Weber, che essendo nato nel 1786 fu uno dei compositori dell’alba del Romanticismo.
Żywny evitava anche Beethoven (che morì un anno dopo Weber, nel 1827, quando Chopin aveva diciassette anni). E Beethoven, nato nel 1770, già ricordava Mozart come un «pianista che suonava in uno stile datato». Precisiamo che, dopo Żywny, Chopin non ebbe mai altri maestri di pianoforte. Tra un musicista formatosi all’esecuzione al clavicembalo e uno formatosi al pianoforte il modo di intendere la pronuncia musicale può variare in molti dettagli. Vanno ricordate alcune di tali abitudini che distinguono il modo di eseguire musica al pianoforte dall’esecuzione al clavicembalo. Si tratta di prassi generali che si sono sviluppate a partire da peculiarità tecniche specifiche. Entrando nell’ambito della retorica espositiva strumentale, possiamo fare un esempio di tecnica della pronuncia musicale, che deriva dalla circostanza che il meccanismo di funzionamento del clavicembalo non prevede un controllo delle dinamiche. Articolare e strutturare una successione di suoni è dunque possibile solo con la gestione delle durate. Come se la parola non potesse appoggiarsi agli accenti che rinforzano determinate sillabe, ma fosse scandita da allungamenti di alcuni suoni. Una espressione che si ottiene attraverso minime variazioni di durate. Come nel caso della metrica antica greca e latina. E a questo genere di gesti melodici furono addestrate le generazioni di musicisti fino all’avvento di uno stile più propriamente pianistico, dove è possibile un accento “esplosivo” sul singolo suono. Questa impostazione deve essere tendenzialmente applicata anche agli strumenti su cui Chopin stesso si era formato, come il pianoforte a tavolo usato per anni a Varsavia; e può agevolmente applicarsi anche a quelli, già molto diversi, usati negli anni successivi: dai Graf che conobbe e apprezzò a Vienna, fino ai Pleyel degli anni parigini. Strumenti nei quali la proporzione fra risonanze e attacco cambia un po’ rispetto a quello che siamo abituati a ottenere sugli strumenti moderni, più dettagliati e tendenzialmente molto più aggressivi – soprattutto sulle zone acute. Tutto ciò non fu codificato in un vero sistema di notazione condiviso unanimemente, e appare lasciato alla discrezione del lettore di musica. Se Moscheles, Meyerbeer, Schumann, e tanti altri colleghi musicisti concordano nel testimoniare che l’effetto delle esecuzioni di Chopin non era prevedibile dalla sola lettura dello spartito, viene da pensare che siamo di fronte a un caso in cui il codice con cui gli interpreti addestrati unicamente alla tradizione grafica dominante provano a decifrare i segni sulla partitura non coincide con le intenzioni del compositore. Non si trattava evidentemente di applicare al testo musicale semplici varianti, o i canonici abbellimenti, di qualche nota cambiata, di una dinamica estemporanea. Come per gli elementi di un dialetto, si utilizza una combinazione di impostazioni generali e dettagli specifici; un atteggiamento estetico applica un repertorio di artifici retorici – che, nel caso di Chopin, sono quelli basati su una concezione del suono elaborata nell’isolamento della provincia, a Varsavia, a partire dal contesto del belcanto di primo Ottocento fino al traumatico impatto con la retorica strumentale di Paganini.
Perché, infatti, il vero trauma, in tutta Europa, si incarna in Paganini. Sollecitato dall’ascolto del mitico violinista genovese, anche nel caso di Chopin, il percorso più creativo sarà germogliato sicuramente da esperimenti tesi a rendere con lo strumento gli effetti vocali in voga in quel momento.
Sulla fondamentale e consapevole relazione di Chopin con il mondo della vocalità belcantistica si insiste unanimemente. Ma il belcanto non è solo nel cantare legato, e con una certa generica libertà. Innumerevoli caratteristiche apparentemente marginali possono invece rivelarsi essenziali e svilupparsi fino a occupare un posto vistoso. Per esempio, nella melodia cantata esistono vocali ma anche consonanti; i suoni hanno ognuno un proprio tempo di sviluppo e di stabilizzazione. Tanto che nel tardo romanticismo era rimasto tra i pianisti il vezzo di suonare in ritardo alcune note melodiche della mano destra, per ammorbidirne l’attacco nella percezione dell’ascoltatore (come se l’emissione della nota fosse iniziata così piano e delicatamente da essere praticamente inaudibile nei primi istanti). Chopin stesso, nella impossibilità di spiegare ai suoi studenti alcune caratteristiche tecniche della cantabilità cui alludeva nelle sue melodie, capitolava. E faceva riferimento all’esempio di famosi divi del belcanto, consigliando di andare in teatro ad ascoltarli. E in effetti, ad ascoltare le esecuzioni degli artisti più autorevoli, possiamo constatare quanto frequentemente i cantanti a volte molte volte non cadono in ogni sillaba perfettamente a piombo sulle note dell’accompagnamento, a volte addirittura anticipando. Su questo settore, ancora oggi il mondo dell’opera conosce continui sviluppi e aggiornamenti per il recupero di tutte quelle prassi esecutive che caratterizzano il repertorio di ogni periodo e in certi casi di qualche singolo autore.
Il mondo accademico pianistico, abbiamo ricordato, ebbe qualche sfumatura di sospetto verso la musica di Chopin. L’Inghilterra industriale e puritana che si riconosceva di più nell’equilibrio della musica di Mendelssohn, dove tutto è risolto. Chopin scrisse numerosi Valzer, che ebbero enorme diffusione. Nel primo Ottocento la stessa idea di Valzer non corrispondeva alla mitologia che abbiamo ereditato dalla vecchia Vienna imperiale (l’emblema potrebbe essere il Rosenkavalier, l’opera di Richard Strauss dove tutto è valzer, anche in una azione ambientata… prima che il valzer stesso fosse inventato): il Valzer era danza sospetta e sconveniente, che si danzava fisicamente a contatto. Anche il maestro di Saint-Saëns, Camille-Marie Stamaty (di un anno più giovane di Chopin, aveva studiato con Kalkbrenner; Saint-Saëns ci studiò dal 1842, quando Chopin era ancora vivo) sconsigliava di studiare la musica di Chopin, considerata poco formativa.
Sull’onda del successo inarrestabile dell’eredità musicale di Chopin, tra tutte le testimonianze dell’epoca, che tra mitologia e iperbole concordano nel descrivere un musicista che trae dal pianoforte un suo suono estremamente personale, i ricercatori della autentica tradizione chopiniana sono apparsi presto. E tuttora si accapigliano, appassionati come i ricercatori del Graal.
Ma esiste, è mai esistita, è mai iniziata una tradizione del suono chopiniano? Io stesso ho studiato con Aldo Ciccolini, che studiò anche con Alfred Cortot, che studiò con Èmile Decombes, di cui si sa poco se non che fu uno degli ultimi allievi di Chopin. Abbiamo edizioni musicali di Karol Mikuli e registrazioni dei suoi studenti, e Mikuli pare sia stato anche assistente di Chopin. Ma che valore hanno tali passaparola? Già lo stesso Mikuli lascia del suo maestro una testimonianza sospetta: «Il mio forte lo disturbava. E i suoi rimproveri mi ferivano, anche perché con altri allievi era più condiscendente»2.
Dal 1920 circa la pronuncia di tutto il repertorio musicale ha conosciuto un irrigidimento. Che, possiamo dirlo oggi, fu severo fino ad aver provocare, come reazione, le brillanti insolenze di nuove leve dei virtuosi.
Abbiamo rievocato sopra le tecniche di appoggio della parola su sillabe non rinforzate ma allungate. Ecco, intanto la ricerca del fraseggio chopiniano, in un certo senso, dovrebbe seguire a ritroso quei percorsi metrici che da Apollinare di Laodicea, attraverso Nonno e Colluto, arrivano ai politici rimati di Giusto di Giovanni Glykos. Se dunque veramente la generazione di Chopin, Bellini e Schubert, pensava sicuramente la pronuncia musicale in termini quantitativi, e non accentuativi, tutto ci lascia supporre che Chopin usasse quella speciale tecnica di allungamenti (ancora riscontrabile in lingue e dialetti) che si combinava – senza equivalersi e senza escluderla – alla tecnica di accentuazione cui invita il meccanismo del pianoforte. E Chopin indicava tutto ciò, consapevolmente, con il suo sistema di accenti e forcelle. Sistema purtroppo equivocato dalla generazione di pianisti immediatamente successiva. Essi, semplificando, intesero ogni simbolo di accento come un rinforzo meno retorico di uno sforzato, e alla forcella associarono un crescendo. In altre parole, i revisori e gli interpreti successivi a Chopin presupponevano un senso dinamico da applicare a quel sistema di notazione di piccoli rubati.
Il risultato di queste particolari caratteristiche del linguaggio grafico di Chopin ha avuto delle conseguenze impreviste. Per più di un secolo i revisori hanno tentato di “aggiustare” graficamente il sistema chopiniano di accenti e forcelle, da loro giudicato curiosamente incoerente. Già in occasione della pubblicazione delle prime edizioni.
Eppure Chopin si sforzava di essere accurato e meticoloso nella stesura della sua musica. Pensava e sceglieva con cura ogni dettaglio dei suoi manoscritti, scrivendo (in matita), cancellando e riscrivendo ogni cosa infinite volte (ma fu giudicato «incapace di correggere bozze di stampa»…). Ci fu anche qualche contemporaneo che lamentava l’eccesso di prescrizione, che lasciava poca libertà all’interprete.
Moltissimi documenti oggi sono oggi stati pubblicati, incorporati nelle moderne edizioni a stampa o comunque disponibili. Varianti, annotazioni di improvvisazioni, segni in matita sulle partiture degli studenti. Al netto dei frequenti errori di stampa delle edizioni del primo Ottocento, quando si parla degli spartiti chopiniani, con le loro legature annotate imprecisamente, i loro diesis incerti, a un lettore moderno non avvezzo al vocabolario grafico di quegli anni spesso i conti non tornano. E gli interpreti spesso continuano a ignorare molti di quei segni illogici o superflui, invocando la libertà di interpretazione.
Quando invece per una libertà credibile una convinzione meditata su quanto annotato sulla pagina dovrebbe essere un punto di partenza obbligatorio. E poi c’è dell’altro. Chopin, è vero, si impegnava ad annotare la sua musica con grande accuratezza. Ma sappiamo anche che ad ogni esecuzione improvvisava, abbelliva, modificava. Il potere di suggestione della carta stampata, quello cui aggrappavano e basavano la propria attività i compositori della generazione appassionata delle macchine e della riproduzione meccanica (attiva dell’inizio del ‘900) affermando che gli interpreti dovevano “eseguire” gli ordini indicati dal compositore sullo spartito chiaramente e univocamente («ogni segno dovrebbe avere un solo significato», avrebbe auspicato un operatore logico-filosofico), senza modificare alcunché, rischia insomma, se applicato senza criterio e senza conoscenze filologiche, di trasformare il pane fresco e morbido in pane raffermo.
Nel solco della confidenza con cui pianisti compositori (pensiamo, dopo Chopin, a Rachmaninoff) hanno guardato al documento scritto, ritroviamo le abitudini di compositori della generazione di Ezio Bosso.
Dopo il 2000 torna sensato che ad eseguire abitualmente i propri pezzi sia il compositore stesso, magari modificandone dettagli secondo la situazione specifica, non solo perché il ruolo di compositore assicura chi ascolta riguardo la credibilità e l’autorevolezza, ma soprattutto perché da tutti viene apprezzato il dialogo, l’atteggiamento reattivo del creatore con il proprio pubblico.
Le analogie con la situazione di un musicista di due secoli precedente continuano: non è indispensabile pubblicare regolarmente i propri pezzi stampandoli; è possibile elaborare e mantenere una serie di
segni “in codice” per la propria cerchia di interpreti e collaboratori; e si ritorna a “vendere” principalmente le proprie esecuzioni.
Possiamo ipotizzare che in molti casi ciò che a Chopin premeva non era di assicurarsi che un determinato passaggio avesse sempre lo stesso aspetto. Era essenziale piuttosto far capire che al flusso musicale era essenziale quella continua, imprevedibile trascolorazione, quell’esplorazione irrequieta di sfumature inusuali. L’atmosfera generale della sua musica è intrisa di quella espressione destabilizzante tipica del primo romanticismo, che nella sua linearità mai sovraccarica accoglie però la parola poetica irrazionale. Un mondo dove una esposizione può anche assumere un tono rigoroso, ma non rigido o spigoloso.
L’irrigidimento è un concetto chiave, e un punto interessante, che tocca anche il senso di estemporaneità intrinseco della musica. Oggi circola il concetto che la musica classica consista nell’eseguire le prescrizioni dello spartito, e nel mondo jazz invece si improvvisa creativamente. Potrebbe sembrare. Proviamo però a
impostare il confronto partendo da altre premesse. Un musicista molto ammirato tenterà di monetizzare sulla propria arte come sia possibile nei limiti di una imprescindibile dignità (per citare Rachmaninoff: «Non si può vendere la musica, l’Arte, l’ispirazione. Ma il manoscritto si»). Approfondendo ulteriormente, la cosa si rivela articolata. All’epoca di Chopin non esisteva il disco. Quindi lui, come tutti i suoi colleghi, guadagnava con i concerti (nei teatri o nei salotti), facendo lezioni, e anche vendendo musica scritta. Sia che lo spartito contenesse una traccia di una musica da lui eseguita e riproducibile da altri interpreti, sia che lo spartito fosse una sorta di “utopia” offerta al pubblico di dilettanti e professionisti. Infatti nel caso di alcuni Studi dello stesso Chopin; o di tanta musica del giovane Liszt (tra cui la versione del 1837 degli Studi) o come per molta musica di Alkan, i fascicoli di musica, magari rilegati in volumi sontuosi, erano destinati a rimanere sugli scaffali, aperti e mostrati ad amici e colleghi, suscitando meraviglia e incredulità. Si tentava di scalare queste vette inaccessibili, ma senza trasformare quelle pagine in una esecuzione corretta, magari addirittura una esecuzione pensata per raggiungere il palcoscenico di una sala da concerto. La carta stampata metteva anche in moto un meccanismo pubblicitario importante. Ma nel 1960 si vendeva e circolava molto di più un disco che uno spartito. Era più conveniente registrare il proprio pezzo, e vendere la registrazione. Il jazz si sviluppa nell’epoca del disco, con il paradosso di vendere il mito dell’improvvisazione attraverso il disco che si riascolta, e più volte. E non cambia affatto, da volta in volta. Anzi, un disco riascoltato è più simile a sé stesso di quanto possano essere due esecuzioni successive dello stesso spartito di Beethoven.
Nonostante Chopin avesse difficoltà ad annotare su carta le sue esecuzioni, insomma, doveva farlo. Forse sarebbe stato più felice registrando, e vendendo audio. Come nel mercato della musica commerciale del ‘900, quando l’audio è più importante della scrittura.
Generazione dopo generazione, il contesto in cui un artista si trova ad essere addestrato e poi ad operare gli indica dei temi su cui concentrare l’attenzione, lo spinge verso gli argomenti e i problemi ai quali la sua società si mostra interessata, alla ricerca, caso per caso, di soluzioni inevitabilmente transitorie. Oggi avrebbe senso dunque perseguire una ricerca estetica di matrice filologica in tale direzione, anche sul grande repertorio, anche all’interno delle tradizioni storiche, o delle abitudini di ascolto più consolidate. Sulle scelte lasciate al gusto personale ognuno si formerà la propria opinione. Anche la scelta di utilizzare un pianoforte storico ovvero uno strumento moderno già indirizzerebbe i risultati, collocando l’ambito dialogo con il pubblico, e guidando il tipo di ascolto offerto, se quello oggi più consueto o magari deliberatamente inusuale.
Il codice di decifrazione di un capolavoro, intrinsecamente inconsapevole, tendente a rimanere tacito, muta. Niente rimane ovvio, anche ciò che è stato detto e ribadito; perché gli uomini non ascoltano, e se ascoltano dimenticano. Tutto va chiarito a ogni occasione. La generazione di Chopin, vissuta prima di Pierre de Coubertin, non ha conosciuto lo sport. Virtuosismo e fisicità assumono un senso differente anche quando si tratta di maneggiare uno strumento. Né erano ancora i tempi della ballata che seppellì il mondo dell’eroismo militare, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke3, quindi il tempo di marcia, la ritualità ufficiale e prevedibile, la solennità cerimoniale avevano tutt’altro valore, qualcosa che oggi non condividiamo più. Un maestoso di una Polonaise, un fortissimo, un ritmo puntato di una Mazurka, un ritornello, un presto, un andamento processionale. Tutto va tradotto, ripensato. Quasi tutto. Perché, in fin dei conti, una barzelletta non funziona quando viene spiegata, offrendone la chiave, ma quando si conduce l’ascoltatore a percepirne il senso e a trovare la chiave da sé.
In tale flusso di segni e di pensieri, l’intenzione dell’artista dovrebbe permanere sempre quella di aver lasciato una traccia di una musica che capta l’istante, beninteso come epifania transitoria di qualcosa di diverso, di altro. Incarnando un’idea di spartito che non sia concepibile come esaustivo. Perché la musica deve avvenire, ogni volta, non solo durante il concerto ma anche durante la sua scrittura nello studio del compositore. E una volta assente, che lasci come traccia non una serie di prescrizioni e di comandi a un interprete, offrendo all’ascoltatore una memoria (quella, sì, duratura), suggestioni ineffabili, e il fascino e l’incanto delicato dell’effimero.

  1. Pianista, compositore e direttore d’orchestra. ↩︎
  2. Notiamo anche che Mikuli prese lezioni da Reicha, compagno di infanzia e di studi di Beethoven, quando ancora a Bonn; arrivando a Parigi anni prima, Chopin stava per studiarci anche lui; ma fu sconsigliato perché Reicha era «ormai invecchiato». Sui rapporti di Reicha con Beethoven, e le conseguenti influenze sullo sviluppo della musica francese ottocentesca, c’è ancora parecchio da studiare. ↩︎
  3. È il titolo di un celebre racconto di Rainer Maria Rilke (1875-1926). ↩︎

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