Estratto da “Krínomai. Rivista italiana di storia e critica delle Arti”, n. 1 (Milano, 2025), pp. 129 -140
Quando l’arte intercetta qualcosa dentro di noi c’è un legame di gratitudine che ci tiene legati a quelle persone, a quell’arte, anche a distanza di anni.
L’opera di Elvis Spadoni2 (1979) la possiamo definire un’opera di luce, ma la luce non la si può dipingere.
La luce, come il buio, impediscono di vedere. Quando c’è molta luce si rimane accecati, quando c’è molto buio non vediamo nulla per assenza di luce. Noi cominciamo a vedere quando il buio e la luce si incontrano tra di loro. La sola luce rende impossibile la vista.
Nel passato un altro grande artista fa un’operazione quasi contraria a quella di Elvis Spadoni ed è Caravaggio. Egli dipinge il buio, poi salva dal buio qualche figura, la tira fuori da quell’abisso, la redime.
C’è un guizzo di luce che illumina uno sguardo, un volto, un gesto, un corpo, ma fondamentalmente il grande fondale è quello del buio; la redenzione di Caravaggio è quella di strappare al buio un pezzo di luce.
Spadoni fa esattamente il contrario, salva dalla luce un pezzo di buio. Se non tirasse fuori un’ombra da quella luce essa per noi rimarrebbe inaccessibile, non visibile. Abbiamo bisogno che qualcuno salvi qualcosa da quella luce, che la tiri fuori, che ce la mostri.
La luce rappresenta il divino. Dio è ovunque. Tutto è attraversato da questa luce, tutto è incastonato dentro questa luce, tutto è dentro questo mistero grande e divino.
È una grande professione di fede. Ogni quadro di Spadoni è come un credo; è un dire ad alta voce la nostra fede. L’Apostolo Giovanni, per descrivere Dio, dirà che “Dio è luce e in Lui non c’è tenebra”3.


Quando ci troviamo davanti a troppo buio o a troppa luce noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia la carità di rendere possibile la nostra vista, che ci faccia vedere le cose. Quella luce ci costringe a guardare l’ombra da un punto di vista completamente diverso.
Quell’ombra non è più semplicemente ombra, è un modo di raccontarsi della luce, un modo che ha la luce di dire qualcosa a noi, di insegnare qualcosa a ciascuno di noi.
Una mano trafitta è segno di dolore. Come può la sofferenza essere luce? Come può il dolore di una persona diventare qualcosa che abbia a che fare con Dio? Il dolore di una madre, il dolore di un padre, il dolore di una malattia, di un tradimento, di un’ingiustizia, il dolore della vita che a volte diventa assurda, come può tutto questo dirci Dio?
Ha più ragione Caravaggio. In realtà è tutto buio e tutto senza senso. Ogni tanto c’è qualche luce in ciò che non ha senso.
Qui è esattamente il contrario. Tutto ha senso, anche l’assurdo, quando noi lo guardiamo a partire dalla luce.
Solitamente siamo abituati a pensare che si passi dal buio alla luce; la luce prima non c’è e poi c’è; prima è tutto spento e poi tutto è acceso. Questo però è esattamente il contrario di quello che ci racconta il cristianesimo.
Tutta la storia della salvezza è esattamente al contrario di questo paradigma che tutti noi abbiamo dentro. Non è vero che si passa dal buio alla luce, in realtà si passa dalla luce al buio. Se non ci fosse questa sequenza per ciascuno di noi il buio sarebbe insopportabile. È la luce che rende sopportabile il buio. Se noi iniziassimo dal buio saremmo sconfitti, schiacciati, non ci sarebbe possibilità di redenzione per ciascuno di noi. Questo è il motivo per cui nei racconti del vangelo troviamo prima il Tabor cioè la Trasfigurazione e poi il Calvario, la crocifissione.
Anche se gli esegeti e i teologi ci dicono che questa incursione di luce nel cuore del Vangelo rappresenta un’anticipazione di resurrezione. Gesù, ad un certo punto, sente l’esigenza di immergere, di bagnare i suoi, Pietro Giacomo e Giovanni, in un mare di luce. Loro stessi non ne capiscono il significato, ma in realtà è l’unico modo di vaccinarli, di prepararli, di difenderli da un mare di buio che sta per abbattersi su ciascuno di loro.
È solo perché ricorderanno la luce che non rimarranno schiacciati dal buio. È questo il vero itinerario anche dentro la vita umana.
Ancora una volta il cristianesimo è anti mondano. Il mondo ci insegna che si va dal basso verso l’alto e invece il cristianesimo ci dice che si va dall’alto verso il basso. Questo è il tema dell’incarnazione.
Soltanto quando facciamo una vera esperienza di luce possiamo permetterci di entrare nella notte («E si fece buio su tutta la terra, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio»4). C’è qualcosa che unisce queste due montagne, il Tabor, dove c’è così tanta luce che acceca i discepoli, e il Calvario, dove c’è così tanto buio che non fa vedere. Il fatto è che in entrambi i casi le persone che sono lì presenti fanno fatica a capire il senso. Spesso ognuno si trova in una condizione simile: un dolore improvviso, una situazione terribile, quello che ci spinge dentro, che ci pungola il cuore e che ci fa sentire ancora di più il dolore. Qual è il senso di tutto? Qual è il senso di questo buio?
Nessuno di noi può capire il senso del buio se in qualche maniera non lo ricollega alla luce che misteriosamente lo precede. Soltanto quando creiamo un ponte tra la memoria della luce dentro di noi e quel buio quest’ultimo comincia a risplendere di un significato nuovo, di un senso nuovo.
Nell’Antico Testamento, prendendo ad esempio il personaggio del grande re Davide, vediamo come egli prima viene unto da Samuele poi viene perseguitato da Saul. La sua funzione da re non è il frutto della fine della sua persecuzione ma è ciò che anticipa la sua persecuzione. È come se il Signore gli desse prima una sorta di appartenenza e soltanto dopo che lo ha unto, lo ha segnato, potrà affrontare anche tutte le difficoltà che ci saranno dentro la sua vita. Soltanto se tu ti senti amato puoi affrontare tutte le cose brutte del mondo, perché l’amore ti prepara ad affrontare le difficoltà. Ma se tu affronti delle difficoltà senza una forte esperienza di amore precedente quelle difficoltà ti schiacciano.
Dio nelle persone che sceglie, nella predilezione di Davide, nella predilezione di Giuseppe, nella predilezione di Mosè, nella predilezione di tutte le donne dell’Antico Testamento, Ruth, Debora, Noemi, agisce secondo questo schema. Essi prima devono fare un bagno di luce e soltanto dopo un’esperienza positiva potranno affrontare anche le difficoltà. Dio non salva dalle difficoltà le persone che sceglie, le prepara ad affrontarle.
Ciascuno di noi deve guardare la propria vita domandandosi quale luce ha ricevuto per poter trovarsi poi in quello che sta vivendo in questo momento; non importa se la proporzione tra la luce e il buio è sproporzione e non proporzione. Noi non abbiamo il 50% di luce e il 50% di buio; abbiamo il 5% di luce e il 95% di buio nella vita.
Il Tabor è una parentesi di luce in mezzo a tanto buio che è raccontato. Non c’è proporzione tra quell’evento e tutti i racconti della crocifissione di Cristo. C’è sproporzione. Non è importante quanto dura quella luce, è importante che anche solo per un istante quella luce si affacci dentro la nostra vita, che per una volta, per un minuto, per un istante, per un momento anche breve della nostra vita abbiamo fatto l’esperienza di quel bagno di luce, ci siamo sentiti veramente amati, veramente voluti bene.
Giovanni ci dice che Dio è luce, che Dio è amore. La luce e l’amore sono la stessa cosa. Il vero lavoro della vita spirituale non è fare tanto o riempirsi di chissà quali pratiche. La vita spirituale è la pazienza di ricollegare la luce con il buio. La vita spirituale è quello che fa Elvis Spadoni, è salvare qualcosa da ciò che noi non capiamo, da ciò che noi non possiamo vedere.
Tutte le cose che questa vita ci mette davanti difficilmente le possiamo incasellare in una logica. Noi non abbiamo una vita dove tutto è ordinato, abbiamo una vita dove tutto trova un’armonia soltanto se la si guarda attraverso uno sguardo pieno di significato. Se Cristo non avesse riempito di significato la vita non potremmo vivere nessuna delle nostre esistenze. È questo il convincimento fondativo del cristianesimo.
Nell’Antico Testamento troviamo l’epopea dei Profeti. Elia, ad esempio, tra i grandi profeti si ritrova a fare un’esperienza simile a ciò che abbiamo pocanzi descritto. Egli prima sperimenta la luce: riesce a operare una resurrezione, va incontro a una vedova a Sarepta di Sidone, vince contro i sacerdoti di Baal, combatte uno contro trecento, uno contro quattrocento, e vince. C’è una benedizione che si porta addosso con evidenza, ma subito dopo quella benedizione Elia entra in un vortice depressivo. Egli può permettersi quella depressione perché il Signore prima gli ha dato la benedizione.
Noi possiamo vivere la vita solo e soltanto se il nostro punto di partenza è la luce. Non dobbiamo andare altrove, non dobbiamo inventarci chissà che cosa, non dobbiamo pensare che l’esperienza della luce sia un’esperienza fuori dal mondo. Dio ha nascosto la luce nelle cose più normali della nostra vita. A volte è l’amore di una madre, la mano di un amico, la parola di qualcuno che gratuitamente ti ascolta, l’affetto sincero di qualcuno che ci fa vedere che la luce è ovunque, se noi abbiamo gli occhi attenti.
Una delle caratteristiche principali della vita spirituale è l’attenzione. Noi intendiamo la vita spirituale come controllo. Spesso pensiamo che se abbiamo la vita spirituale non andremo in crisi e quindi avremo tutto sotto controllo. Ma questa è un’illusione. La vita spirituale non ci tiene lontani dalle crisi ma ci insegna come attraversarle. È l’attenzione ai dettagli che cambia il nostro sguardo. I dettagli ci dicono la differenza. Se noi invece manteniamo uno sguardo superficiale rimaniamo solo accecati dal troppo bianco, perché c’è troppa luce. Ma quando il nostro sguardo diventa attento ci accorgiamo di piccoli dettagli che cominciano a diventare significativi come una sorta di scoperta interiore. Quei dettagli rappresentano qualcosa dentro la nostra vita. Il nostro modo di saper interpretare la nostra vita cambia radicalmente. Questo è il metodo di Gesù.
La prima cosa che fa Gesù quando comincia la sua vita pubblica è chiamare delle persone attorno a sé. Chiama Pietro, Giacomo e Giovanni, persone che poi diventeranno i suoi amici, quelli con cui lui condividerà la maggior parte della sua vita.
Gesù incontra Pietro in un momento faticoso della sua vita ma la prima cosa che gli dona non è la chiamata bensì le reti piene. In quel momento Pietro sta sperimentato il fallimento della sua vita. È un pescatore che non pesca pesci, è un uomo che ha le reti vuote. Quanto è facile manovrare una persona delusa? C’è una logica tremenda dietro tutto questo; prendere le persone nelle loro delusioni. Il primo dono che fa Gesù a Pietro è la luce. La luce per un pescatore è tornare a casa con i pesci. Prima gli dà le reti piene e poi gli chiede di seguirlo. È una lezione immensa per ciascuno di noi.
La vocazione è qualcosa che riguarda tutti noi. Una persona scopre la propria vocazione non al margine delle proprie delusioni ma soltanto quando ha toccato il fondo della sua luce, quando si è accorto che tutto quello che desiderava lo ha avuto ma non è felice.
Francesco d’Assisi, ad esempio, non è un ragazzo che non ha avuto nulla, ha avuto delle reti piene. Questo però non basta. Come il giovane ricco deve dar via ciò che ha riempito la sua vita perché tutto questo non lo ha reso felice. Il punto di partenza è una pienezza che, però, ci rivela che non basta e che abbiamo bisogno di metterci in viaggio. Per capire la lezione di che cosa sia davvero la luce noi abbiamo un’unica possibilità: il buio.
Tutti noi abbiamo bisogno di crisi nella vita. Tutti noi abbiamo bisogno di fare un percorso che a volte è irto, è difficile, è strano, è contorto, che non va come ci eravamo immaginati. Questo è l’unico modo per poter capire che cosa sia davvero la luce.
Gesù in tutta la sua vita ha donato questo alle persone, andando contro la mentalità degli scribi e dei farisei che interpretano la Legge affermando che Dio esiste ma che si dà solo a coloro che meritano questo amore, solo a coloro che sono capaci di accostarsi in maniera pura a questo amore.
Gesù, quasi con un gesto eretico, capovolge la logica degli scribi e dei farisei; è l’amore che genera la conversione non il contrario. Egli prima entra in casa di Zaccheo, poi Zaccheo si converte. Nel nostro modo di vedere, invece, c’è prima Zaccheo che si converte poi gli viene data la grazia di accogliere Gesù.
Quale vangelo vogliamo seguire? Quello degli scribi e dei farisei o quello che ci insegna Gesù? È ovvio che quando Gesù si comporta così la gente mormora. Tutta Gerico parla male di Gesù a causa di questo gesto. Tutti gli scribi e i Farisei parlano male di Gesù quando si mette a mangiare a casa di un peccatore pubblico come Levi (Matteo l’evangelista). Gesù conoscendo la mentalità dei Farisei cerca di spiegar loro la sua logica («Non i sani hanno bisogno del medico ma i malati»5).
Il Signore ci ama in maniera preventiva; è questo amore preventivo che suscita in noi la vera conversione. Quando c’è un’esperienza forte di amore il cambiamento è vero, è profondo. Per avere un’esperienza forte di amore bisogna essere umili. Gli umili sono coloro che si lasciano amare e questo non è scontato. È una cosa paradossale dentro la nostra vita.
Noi da una parte desideriamo fortemente di essere amati ma passiamo la vita ad emanciparci dalla possibilità effettiva di far entrare l’amore dentro la nostra vita. La traduzione di questo meccanismo sbagliato è orgoglio, è superbia. I superbi sono quelli che vogliono salvarsi da soli, gli orgogliosi sono quelli che credono che il loro schema sia la via d’uscita. Solo se sei umile ti lasci amare, se ti lasci amare svolti, inizi veramente. Se tu vuoi fare questa esperienza di luce, che poi potrà condurti davvero nel buio, devi partire innanzitutto dall’umiltà.
A volte sono le umiliazioni della vita che ci rendono umili. Francesco, ad esempio, deve fare l’esperienza di essere sconfitto, di partire a conquistare il mondo come cavaliere e di fermarsi a pochi chilometri carcerato, di essere rinchiuso, di essere sconfitto. Ma in quel momento, quell’umiliazione gli fa scoprire un’altra via: l’umiltà. In quell’umiltà, nata dall’umiliazione, arriva la luce. Soltanto perché Francesco fa un’esperienza di luce potrà vivere il resto della sua esistenza al buio. C’è una caratteristica che è interessante anche nella vita di Francesco. Più va avanti e più è cieco, non vede, è immerso nel buio, ma non c’è più buio per lui perché ha incontrato la luce. C’è luce intorno a lui, una luce diversa che è passata attraverso le stigmate. Quando quella luce passa attraverso quella ferita ha un significato diverso.
Non è forse questo il tempo pasquale? La Pasqua è la luce che viene dopo il buio del Venerdì Santo. Ma questa luce non è la luce di prima, non è la luce del giorno del battesimo, non è la luce del Tabor, non è la luce delle folle innumerevoli di persone che vedono i miracoli di Gesù, che sentono i suoi discorsi, non è la luce di tutti coloro che vedono la capacità di Gesù di guarire le persone, di liberarle dai demoni, non è la stessa luce di essere vincenti. La luce pasquale è una luce che viene filtrata dalle ferite del Risorto. Il Risorto per convincerci che è Risorto avrebbe dovuto mostrare la vittoria contro tutto quello che ha sofferto e invece ci mostra una vittoria strana, una vittoria che lo ha segnato.
Per tutta l’eternità il figlio di Dio si porterà addosso quelle ferite, quel dolore, quel passaggio di sofferenza. Ma c’è una grande differenza; non è più dolore e basta, le ferite di Gesù sono ferite di un dolore che si chiama amore. Gesù è ferito perché ha amato. Noi siamo spaventati dal dolore, siamo spaventati dalla Croce, siamo spaventati dalle difficoltà, siamo spaventati da quelle che chiamiamo le disgrazie, ma dovremmo essere spaventati solo dal fatto che tutto questo noi non lo viviamo per amore di qualcuno.
Quando tu vivi qualcosa per amore quel dolore non è più dolore è luce. Quando tu vivi per amore, la debolezza non è più debolezza, è luce. La vita può renderti cieco ma tu ci vedi benissimo; non hai più bisogno degli occhi del mondo, non hai più bisogno di guardare le cose come le guardavi prima. Per poter cantare la bellezza della creazione non c’è bisogno di vedere con questi occhi.
Francesco è quasi cieco quando scrive il Cantico delle creature, ma vede in un modo nuovo, vede in un modo diverso. È come se Francesco attraverso questo passaggio ci mostrasse esattamente questo itinerario; ha avuto la sua luce. Da quel momento in poi ha avuto l’opportunità di poter entrare nel buio, di fare la sua Kenosi, la sua discesa. Tutti noi abbiamo una discesa, ma in questa discesa tutto cambia, tutto diventa diverso. Quelle stimmate sono una predilezione di amore di Dio; lo ha associato a sé in una maniera mirabile. I compassionevoli sono quelli che hanno sofferto, i misericordiosi sono quelli che hanno sbagliato molto nella vita.
Tutto quello che noi oggi chiamiamo bene passa attraverso qualcosa che ha squarciato, che ha aperto. Paolo, riferendosi a Dio ci dice che «in Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo»6. Il problema è che noi non ne abbiamo consapevolezza. Noi siamo già nel cuore della vita eterna e non ne abbiamo consapevolezza. Noi siamo circondati dalla luce ma non ne abbiamo consapevolezza.
L’unica maniera che abbiamo per capire quella luce è accettare il buio. Quando tu accetti il buio ti lasci educare dalla luce; quella luce ti conduce in una vita completamente diversa. Tu sei diventato luce perché sei diventato completamente amore. Francesco non pregava più perché era diventato egli stesso preghiera. Non annunciava più il Vangelo perché era diventato lui stesso Vangelo.
Tutti noi siamo chiamati a lasciarci amare per poter accettare le crisi della vita e fare il nostro passaggio, la nostra Pasqua, lasciare che la luce ci tiri fuori dal buio in maniera nuova.
Francesco stigmatizzato torna ad essere un uomo ferito, esattamente come il punto di partenza. Ma c’è qualcosa che è cambiato dentro di lui. L’amore di Dio si è impossessato completamente del suo cuore. Prima era povero ma era insopportabile per lui essere povero; ora è povero ed è santo proprio perché è povero.
Non si è felici nella vita per quello che ci accade, si è felici nella vita per come si vive questa vita, per come si porta questa vita. Noi possiamo avere tutto dalla nostra parte ed essere degli infelici e possiamo avere tutto contro in questa vita ed essere profondamente felici. Noi dobbiamo sempre domandarci se quello che stiamo vivendo lo stiamo vivendo nella maniera giusta; se ci stiamo lasciando educare dalla luce attraverso il buio.
Quando Gesù dice «Guardate gli uccelli del cielo, guardate i gigli del campo, non fanno niente ma il Signore provvede a loro; anche i capelli del vostro capo sono tutti contati». Dio ci ama nel dettaglio.
Chi può avere la presunzione di pensare che quello che gli sta succedendo in questa vita in questo momento è fuori dalla grazia di Dio? Un bambino che perde la sua famiglia a causa della guerra non è un innocente in Croce? Un padre che non può vedere crescere i propri figli a causa di una malattia non è un innocente in Croce? Tutto questo non ha spiegazioni, ma tutto questo non accade fuori dalla grazia di Dio. Quando tu punti lo sguardo su quella luce, su quella grazia ti puoi permettere di portare il peso anche di una cosa assurda. Quando tu hai lo sguardo fisso su di Lui puoi accettare anche ciò che è scandaloso. Quando distrai lo sguardo da questo Essenziale vieni immediatamente divorato da quel buio e in te si manifesta la disperazione.
Nessuno di noi è capace di far questo, per questo il Signore ci ha donato lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo raddrizza il nostro punto di vista, ci risintonizza con l’essenziale. Lo Spirito Santo fa tutto questo se noi glielo lasciamo fare.
La redenzione è la luce che passa attraverso quel buco, è la luce che filtra attraverso quella ferita. Tutti abbiamo questi buchi nella vita, tutti abbiamo mancanze e ferite. La domanda non è come chiudere questi buchi ma come farci passare la luce. La nostra professione di fede altro non è che mostrare la nostra vita; è lasciare che questa nostra vita mostrata faccia filtrare la luce di cui siamo capaci.
Se quella tela ci ridà luce nella vita allora sì che ha avuto senso dipingerla; diversamente è semplicemente un pannello tecnicamente ben dipinto. Quando l’arte è come un sacramento, allora noi vediamo della materia ma c’è molto di più oltre quella materia. La via pulchritudinis è l’operazione culturale più efficace che si possa fare perché ha lo scopo di umanizzare la vita legandola ad un significato che non si ferma semplicemente alla riflessione intellettuale, ma le permette di parlare alla persona tutta intera in ogni sua dimensione di spirito, anima e corpo. E l’opera di Elvis Spadoni è un autorevole alfabeto per una via simile.

- Filosofo, teologo e scrittore. Docente presso varie istituzioni universitarie. ↩︎
- Elvis Spadoni nasce ad Urbino nel 1979. Dopo studi in teologia (1998-2007), ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Urbino dal 2007 al 2012, in indirizzo pittura. Nel 2011 ha vinto la borsa di studio Zeffirelli scholarship fund for the arts (New York) e il Premio Nazionale delle Arti, per la sezione pittura. Concentra il suo lavoro sul tema dell’autoritratto tramite uno stile classico e narrativo. Ha pubblicato alcuni testi di estetica e teologia con l’editore Fara di Rimini e ricevuto commissioni di opere pittoriche nel campo dell’arte sacra. Vive e lavora a Santarcangelo di Romagna. Sposato, ha due figli. ↩︎
- 1Gv 1, 5. ↩︎
- Mc 15, 33. ↩︎
- Mc 2, 17; Mt 9, 12; Lc 5, 31. ↩︎
- At 17, 28. ↩︎